Alcune pagine dal romanzo Dendroaspis, una pericolosa avventura

 

Cos'é Dendroaspis? Semplicemente la prima parte del nome scientifico delle quattro specie di mamba, i più temuti e pericolosi serpenti velenosi dell'Afriica e del mondo intero. ....

 

Due parole per presentare il libro

 

Qual'è la molla che spinge l'uomo a rischiare la vita per esplorare sempre nuovi orizzonti? Un tempo era il miraggio di scoprire mondi nuovi, oggi, al tempo dei viaggi nello spazio, pare che la Terra sia del tutto esplorata, ma non è così.

Un gruppo di avventurosi studiosi di rettili, accompagnati da una guida esperta dell'Africa, si avventurano in una delle regioni più selvagge del Mozambico, dove li attendono pericoli mortali, alla ricerca di una nuova, letale specie.

I protagonisti, tra cui tre Italiani, non dovranno fare i conti solo con la fauna selvaggia dell'Africa, ma difendersi anche dalle insidie dell'uomo e dalle malattie tropicali e non tutti ce la faranno.

La grande avventura vede il suo inizio sulle montagne della Val di Susa,  e trascinerà alcuni dei protagonisti, tra imprevisti e colpi di scena, fino alle selvagge savane e foreste del Mozambico, costringendoli a misurarsi con  una natura selvaggia, animali pericolosi e malattie tropicali.

Qualcuno incontrerà avventura e pericoli anche nella civilizzatissima Milano e dovrà affrontare altre belve, pur non armate di zanne o di artigli, altri ancora, dalla parte opposta della barricata, si troveranno sbalzati dalle foreste di abeti del Canada al calore torrido dell’Africa, in un duello all’ultimo respiro.

Tutti, comunque, dovranno, prima o poi, fare i conti con le proprie peggiori paure e talvolta con la parte più oscura di se stessi.

 

Le parti seguenti sono state prese del tutto a caso dal contesto del libro: nel capitolo seguente, una delle protagoniste, Siboniso, partecipa ad una tipica cerimonia nuziale Zulu....

 

 

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KWA-ZULU   NATAL

A Ovest di Mandwane

AGOSTO

 

 

Aveva appena smesso di piovere ed il cielo dello Zululand era grigio come il piombo.

Dalle spiagge sabbiose e dalle dune di Kosi bay alle montagne Balelesberge, dalla valle delle Mille Colline alle Ngoye mountains, da Emangusi, su nel nord, ai Drakensberg, la coltre di nubi copriva, come un basso tetto scuro, la fertile terra degli Zulu che, pur nella stagione secca, verdeggiava, grazie all'inatteso dono della pioggia.

I fiumi che serpeggiano verso l'oceano Indiano, lo Mfolozi bianco, lo Mlalazi, lo Mhalatuzana, il Tugela, ribollivano di acqua limacciosa, che portava con sé rami e tronchi, spettacolo insolito in quella stagione.

Gli iz.angoma avevano predetto che un dono del cielo avrebbe allietato la cerimonia che vedeva una donna di sangue reale andare in sposa ad un uomo anch' esso lontano discendente di Chaka, il re, l'elefante nero, il Leone degli Zulu, ed ora i campi di mais, di fagioli, di cetrioli e di sorgo prosperavano, segno fausto anche questo, giacché dal sorgo il popolo del Cielo ricava la birra che allieta le grandi occasioni.

Anche le colline arrotondate della Mhlatuzana valley, a ponente di Mandwane, verdeggiavano, promettendo prosperità al villaggio.

L'insediamento, o umuzi, era situato a poca distanza dal fiume, ed un'insolita animazione regnava tra le izindlwana, le tipiche capanne emisferiche, i kraal ed i recinti del bestiame.

Una moltitudine colorata brulicava e sciamava per ogni dove, ansiosa di partecipare alla cerimonia.

Il fiero popolo degli ama.Zulu non è stato, se non molto marginalmente, condizionato dai vari simboli del consumismo occidentale che altrove, in Africa, rappresentano per molti un segno di benessere e progresso ed uno status symbol e, anche se molti si sono inurbati, i più restano tenacemente aggrappati alle loro tradizioni e vivono in zone rurali, dedicandosi all'allevamento di bovini ed ovini ed all'agricoltura.

In particolare, la pastorizia rappresenta la principale attività e tutta la vita del villaggio ruota intorno al bestiame, che è importantissimo, non solo per la sussistenza, ma nelle cerimonie, negli usi, nei costumi tribali.

Come tutti i popoli di pastori, in Africa, i Figli del Cielo sono, da sempre, dei guerrieri.

Re Chaka, il fondatore della nazione Zulu, il Napoleone nero, riuscì a fondare un impero che sottomise un enorme territorio e che diede filo da torcere al potente esercito inglese ed ai boeri.

Fu re, guerriero e stratega, inventore di un'organizzazione militare impressionante.

I suoi impi (reggimenti), adottando un nuovo tipo di lancia a manico corto, che obbligava allo sconto corpo a corpo, l'assegai, ed una tattica detta " a corna di toro ", con cui la parte centrale dello schieramento, con avanzate e finte ritirate, attirava il nemico tra le " corna del toro " costituite dalle due ali dell'esercito, avevano messo a ferro e fuoco la regione, assicurando al Leone degli Zulu, un potere enorme.

I suoi discendenti considerano questa eredità importantissima e non c'è uomo degno di tal nome che, almeno nelle cerimonie, non indossi i suoi ornamenti da guerriero e non impugni lo assegai, lo scudo e la mazza da combattimento.

Il fumo dei fuochi saliva dal villaggio ad unirsi alle nubi scure, ed il profumo della carne arrostita, dei tori che erano stati sacrificati per l'occasione, stuzzicava le nari dei presenti.

L'Indwendwe, la cerimonia nuziale, aveva inizio.

Gradualmente il vociare della folla si placò ed i convenuti si sedettero a terra, in attesa.

Le donne indossavano le vesti da cerimonia e quelle sposate erano riconoscibili dalle elaborate acconciature e copricapi, come l'indlokhos e l'isicholo, con i capelli raccolti in una lunga protuberanza, dietro la nuca.

Le ibaye, drappi dai colori sgargianti, coprivano le loro spalle e graziosi collari, braccialetti, cinture ed ornamenti di squisita fattura, rutilanti di perline multicolori, risaltavano sui corpi scuri come l'ebano.

Le perline di vetro furono introdotte dai mercanti arabi che raggiungevano le coste del Natal sulle loro Jerbe già secoli fa; tali perline venivano scambiate con schiavi, avorio e merci varie e rappresentano, ancora oggi, un elemento base della cultura di queste genti.

Lungi dall'essere un banale ornamento, con accostamenti di colore casuali, le perline, nell'arte zulu, hanno un loro linguaggio semplice ma profondo e non solo collane e monili, ma tutti gli oggetti di uso comune, anche i più semplici, come portamonete o accendini,  possono esserne rivestiti.

In questo semplice linguaggio di forme e colori, che sovente concerne le naturali relazioni tra i due sessi, vi è una figura geometrica basilare, il triangolo e sette colori.

I tre vertici del triangolo rappresentano padre, madre e figli.

Un triangolo col vertice verso il basso rappresenta una donna nubile e se il vertice è rivolto verso l'alto, un uomo celibe.

Due triangoli uniti per le basi simboleggiano una donna sposata, se invece i due triangoli sono uniti per il vertice, rappresentano un uomo sposato.

La combinazione di diversi colori delle perline, poi, dà origine ad un linguaggio più complesso.

Il colore nero può significare matrimonio, procreazione, ma anche morte, dolore e disperazione.

Il colore blu indica fedeltà o simboleggia una richiesta, ma pure ostilità o malessere.

Il giallo simboleggia la salute, un giardino, industriosità e fertilità, ma può parlare di sete o cattiveria.

Il verde indica soddisfazione oppure malattia e discordia.

Il rosa è il colore della promessa, ma anche della povertà e della pigrizia.

Il rosso e' l'amore fisico, sessuale, esprime forti emozioni, positive o negative, come rabbia ed impazienza e può essere il colore delle malattie di cuore.

Il bianco è l'unico colore a non avere mai connotazioni negative ed è il simbolo dell'amore spirituale, della purezza e della verginità.

La moltitudine colà convenuta, per assistere alle nozze, veniva per lo più dai villaggi vicini, ma alcuni giungevano da lontano.

Non vengono inviate partecipazioni o inviti, ma la notizia dello sposalizio, diffusa a voce, si spande come le onde circolari generate da un sasso lanciato in uno stagno e tutti quelli che vengono raggiunti dalla notizia si sentono invitati.

La notizia dell'evento aveva raggiunto anche Siboniso Sibiya, lontana centinaia di chilometri, per vie e canali misteriosi, e così anche la giovane madonna zulu, laureata all'università dello Zululand, a sud di Empangeni, e biologa apprezzata, aveva indossato il gonnellino, gli ornamenti ed i monili delle vergini.

Un grazioso girocollo di perline, che si allargava sul davanti in una flangia quadrata, recava un vistoso triangolo bianco a vertice inferiore, in campo rosa, ad indicare il suo stato di nubile e, forse, una promessa.

I seni erano nudi, come quelli delle altre danzatrici che, fra poco, avrebbero allietato l'avvenimento, ed il suo corpo, nero e lucido di olio di palma, aveva quelle caratteristiche di bellezza care agli Zulu. A dire il vero, il fisico di Siboniso non era imponente o grassoccio come quello di gran parte delle sue compagne e, forse, per i gusti di alcuni amadoda Zulu, era addirittura un tantino magro, dal momento che una donna in carne, con grandi seni, fianchi larghi e gambe muscolose, rappresenta una garanzia di fertilità, resistenza ed operosità.

Tuttavia, per gli standard europei, la giovane sarebbe parsa un po' sovrappeso, anche se il suo corpo era decisamente attraente, e quel sottile strato di adipe sottocutaneo era distribuito in maniera regolare, tanto da non appesantirne la figura.

Dall'altra parte dello spiazzo, un Ibutho, un intero reggimento di guerrieri, era schierato in assetto di battaglia.

Gli uomini, in piedi, indossavano i costumi di guerra, con gonnellino di pelle e code di vacca, imbracciavano i lunghi scudi ovali, l'assegai ed il knobkierie, la mazza da combattimento.

La mazza, in grado di spaccare agevolmente il cranio di un nemico, viene ottenuta selezionando con attenzione il ramo di un albero a legno durissimo (ad esempio ironwood o leadwood), che presenti un grosso nodo estremamente compatto, che costituirà la testa dell’arma, e poi sagomata e lucidata meticolosamente.

I guerrieri erano silenziosi. Poi, una voce singola si levò, forte e potente, in un a- solo, e, a quel segnale, le donne si alzarono in piedi.

La voce risuonò nuovamente, come una domanda, ed un potente coro di voci eruppe dalla folla e dai guerrieri.

L'assembramento delle donne da un lato ed i guerrieri dall'altro, iniziarono una complessa danza, avanzando e retrocedendo, con una coordinata serie di passi e saltelli, mentre le donne cantavano, battendo le mani a tempo e le vecchie ululavano, agitando fronde verdi.

Di nuovo  scese il silenzio e la voce solista intonò un nuovo a-solo.

A quel punto, un potente canto si alzò dalla folla, un canto che parlava di antenati, di battaglie, di coraggio e di valore. Era il canto struggente di quella terra verde e insanguinata e rievocava fasti passati, testimonianze di vita e di morte, prosperità e guerre, che avevano reso i fiumi rossi di sangue. Era un canto che esprimeva la fierezza di appartenere agli ama-Zulu, i Figli del Cielo, i discendenti del Nero Elefante e la malinconia dei tempi presenti, che avevano sottratto loro tanta gloria e tanto potere, ma, soprattutto, era un canto di promessa, la promessa che nulla e nessuno avrebbe potuto sottometterli, e che la vita del Popolo del Cielo sarebbe continuata, così come le tradizioni ed i valori tramandati dai padri dei loro padri.

Siboniso cantava, commossa, le lacrime agli occhi, e mai si era sentita così parte di un tutto, di un qualcosa di grande e  di importante.

Sapeva che nelle sue vene scorreva sangue reale, giacché la sua famiglia era imparentata con i diretti discendenti di Chaka, e avvertiva che mai come in quel momento si era sentita a casa. Dalle file dell'ibutho, il cui comandante indossava il Kaross, un mantello di leopardo, uscì di corsa un giovane guerriero, armato di lancia e scudo.

Portava un copricapo di pelle con una lunga piuma di ingwababana, l’airone bianco, un gonnellino di bianche code di vacca e due schinieri parimenti di pelle.

Avanzò con aria torva nello spiazzo ed iniziò la giya, il combattimento ritualizzato, contro un immaginario nemico.

Mentre la folla batteva le mani a ritmo, il giovane si esibì in una serie di attacchi, di salti, di giravolte, mulinando l' assegai, portando affondi e fendenti.

Le donne corsero avanti, circondandolo, danzandogli intorno, evitando spesso di misura la lama mulinante, lo incitavano alla battaglia, ma lui proseguiva senza degnarle di uno sguardo, mentre il combattimento volgeva al termine, il sudore ruscellava lungo il torso e le gambe ed il nemico stava per soccombere.

Ad un tratto le giovani da marito indietreggiarono e si fece avanti una in.tombazana, una ragazza promessa, fidanzata.

Anch'essa aveva i seni nudi, ed indossava gonnellino ed ornamenti ma, legate alle caviglie, portava lattine vuote, contenenti semi duri e chicchi di mais. Danzava e saltava intorno al guerriero che combatteva, ed i sonagli producevano un suono crepitante che eccitava gli istinti bellicosi dalla folla.

L'intombazana, a differenza delle sposate e delle nubili, fa parte di un gruppo di " solitarie ", che appartengono al " popolo di mezzo "; sono un gruppo di giovani legate tra loro dal rito del passaggio, il passaggio dalla prima famiglia, quella del padre, alla seconda.

Il guerriero, con un ultimo balzo ed un affondo dell' assegai,  abbattè l’immaginario nemico e, stremato, alzò la lancia, gridando: " Ngidlile, Ho mangiato! "

Era il grido del guerriero vittorioso, che estraeva dal corpo del nemico la lancia insanguinata e la alzava al cielo, offrendo la vittoria al suo re.

La folla eruppe in un boato di entusiasmo.

Fu allora che la figura della sposa si inoltrò nello spiazzo, mentre il giovane guerriero retrocedeva.

Era agghindata in modo semplice, non molto diverso da quello delle altre donne, ma il suo viso ed il suo incedere erano regali.

Portava in mano l’ummese, il coltello rituale, con l'impugnatura ornata di sferette di vetro colorato. La folla ammutolì, affascinata.

La donna, le cui spalle erano coperte da un Ibaye azzurro, camminò lentamente fino al centro dello spiazzo fangoso e, con un gesto brusco, tagliò l'aria davanti a sé, recidendo, con quel semplice gesto, il passato.

Mentre le anziane della famiglia della sposa ululavano, esprimendo la disperazione della perdita, la donna, che in quel preciso momento era diventata sposa, si diresse verso il marito, tra i guerrieri.

Trattandosi di una donna di sangue nobile, il lobola, il riscatto, che solitamente consiste in una decina di capi di bestiame, era stato faraonico.

Cento izin.khomo, bestie di primissima scelta, erano andate ad arricchire il padre della sposa, compensandolo così della grave perdita di un membro così importante della famiglia.

Ancora oggi, uno Zulu può prendere quante mogli vuole, purché sia in grado di pagare il lobola. Ci fu un tempo in cui il padre, che concedeva la figlia in matrimonio, diceva al futuro genero: " U.ngi hlabile….tu mi hai trafitto! " ad indicare il dolore e la perdita economica che implicava il donargli la figlia, ed il prezzo doveva essere pagato.

Mentre gli sposi si recavano ad ispezionare la nuova capanna e i doni di nozze, un altro avvenimento richiamava buona parte dei presenti su di una tozza collina sovrastante l'umuzi.

I guerrieri erano saliti sul pianoro sommitale e, divisi in due schieramenti, si fronteggiavano, sfidandosi e battendo i bastoni da combattimento, che avevano sostituito gli assegai, contro gli scudi in pelle di vacca, con un rumore di tuono.

Una battaglia era imminente.

I due eserciti si sfidavano e si provocavano. Poi, all'improvviso, un giovane guerriero si fece avanti, sfidando un uomo dello schieramento avversario che, a sua volta, irruppe nello spiazzo tra i due ama.butho, e la battaglia ebbe inizio.

I duellanti danzavano, schivavano, colpivano. I colpi risuonavano sordi sul cuoio degli scudi e, talvolta, sul corpo dell'avversario.

Entrambi erano esperti combattenti, ma si vedeva che lo sfidante, più giovane, aveva aggressività da vendere, ma meno esperienza.

Il contendente più anziano saltellava e ballava di meno, risparmiando energie, ma parava, senza soverchia fatica, i colpi furibondi del più giovane, rispondendo con stoccate e fendenti più pacati ma più precisi.

Ad un tratto il giovane attaccante si scoprì e la punta del bastone da combattimento arrivò a colpirlo sotto lo sterno. Per il dolore, il giovane guerriero si piegò in due e lo scudo si abbassò, consentendo al più esperto combattente di assestargli una gragnuola di colpi sulla spalla e sul collo, che lo spedì a terra svenuto.

A questo punto intervenne l’induna, il comandante dello schieramento, che interruppe il combattimento, per impedire che, nella foga e nell'eccitazione, il vincitore finisse il vinto.

Mentre il reggimento il cui campione aveva avuto il sopravvento esultava e rumoreggiava, come tradizione il vincitore aiutò il vinto a rialzarsi e lo accompagnò verso il villaggio, dove lo avrebbe lavato, medicato e bendato, per dimostrare che non doveva residuare alcun rancore.

Al villaggio, intanto, la sposa veniva lavata dalle sue sorelle e la folla si apprestava a dare inizio al banchetto ed alle libagioni, e Siboniso, omaggiati i notabili, si allontanò a piedi, diretta al punto, circa due chilometri più lontano, in cui aveva lasciato la sua utilitaria ed i vestiti di tutti i giorni.

Mentre camminava, ripensava all'emozione che le aveva procurato quell'immersione, quel ritorno alle origini, ed un sorriso si disegnò sul suo viso di luna piena, quando riandò con la mente al rifiuto che aveva opposto ad una precisa avance di un giovane, avvenente guerriero.

Non era ancora il momento, e quello non era l'uomo per lei, ma la sua vanità femminile ne era stata gratificata.

Camminando a passo lesto verso l'auto, ormai in vista, pensò con affetto alla sua amica Helen, che avrebbe rivisto da lì a poco.

Helen era ben più di un'amica, pensò, più tardi, mentre guidava con prudenza verso sud, oltre Eshowe, attraversando la zona dove il re Chetswayo ebbe la sua ultima capitale. Era una sorella ed una compagna di vita, di più, una persona di famiglia.

Le due famiglie, quella dei Burger e quella di Siboniso, erano legate da diverse generazioni, e le loro storie erano intrecciate così intimamente, tra loro e con la storia stessa di quella parte dell'Africa, che sarebbe stato difficile dire esattamente quando tale simbiosi avesse avuto inizio.

Certo era che il bisnonno di Helen ed il suo avevano affrontato insieme bufali e leoni, tribù ostili e malaria, vivendo la dura, avventurosa vita del bush, e che i loro nonni ed i loro padri avevano lavorato e fatto prosperare insieme le piantagioni della vecchia Burger farm, sul fiume Mlalazi.

Questo finché, dieci anni prima, la famiglia Burger aveva deciso di vendere le piantagioni e di comprare una nuova farm nel Capo, sperando che l'allevamento degli struzzi sarebbe stato più redditizio e meno ingrato.

Il padre di Siboniso si era trasferito con loro e contribuiva tuttora validamente all'andamento dell'azienda, come sovrintendente dello staff e fidato, meticoloso controllore, cui nulla sfuggiva.

Siboniso ricordava ancora, con struggente nostalgia, i pigri pomeriggi passati con la sua amica bianca lungo le spiagge di Mtunzini, " il luogo ombreggiato " e sulle rive della laguna di Umlalazi, nelle cui acque nuotavano squali, provenienti dal mare aperto e coccodrilli.

Rammentava i racconti del nonno, che le narrava le gesta del padre di suo padre, il quale aveva combattuto i rooineck(15), gli inglesi, come venivano chiamati, per il collo arrossato dal sole tropicale cui non erano avvezzi, che, muovendo da Fort Pearson, avevano invaso lo Zululand.

Gli impi di Dabulamanzi, nelle cui file il nonno di suo nonno aveva militato, avevano assediato e tenuto in iscacco, per più di due mesi , i potenti inglesi, nonostante la disparità d'armamento, presso la missione di Kwamondi.

L'assedio era stato così stretto da costringere gli invasori a seppellire i loro morti nel perimetro del forte e solo l'intervento di un altro cospicuo contingente, guidato da Lord Chelmsford, aveva, alla fine, avuto ragione del piccolo esercito di valorosi, a Gingindlowu, una località il cui nome significa " ingoiatore di elefanti " ma che era stato, più prosaicamente, storpiato dai vincitori in " Gin, gin, I love you! "

Parimenti ricordava le storie che Helen aveva sentito, a sua volta, dal nonno, e che poi le raccontava: storie di guerra e di combattimenti, giacché anche la famiglia Burger aveva avuto le sue glorie ed i suoi morti nella guerra Anglo-Boera.

Come in tutte le civiltà africane (ed anche i boeri si consideravano una tribù bianca), tra gli Zulu la storia e le gesta venivano tramandate esclusivamente a voce e Siboniso amava ascoltare le storie, che appartenessero o no alla sua gente.

Quelle lunghe sere trascorse a fantasticare, mentre le parole evocavano nella mente visioni, come in un film, le erano care come persone amate e la sua amica bianca faceva parte di tutto questo perché , solitamente, anche Helen era presente, seduta con lei, gli occhi di bambina sgranati e sognanti, ad assorbire, fino all'ultima, quelle parole, ora pacate, quando descrivevano paesaggi e bellezza, ora concitate, quando narravano di scontri e di eroismi.

Nessuno e nessuna forza al mondo aveva, ne' avrebbe mai potuto intaccare quel rapporto così profondo tra loro due.

Siboniso sorrise ancora, mentre il suo cuore cantava, pensando all'indomani.

 

 

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      ..davanti al fuoco da campo, le sere africane sono spesso occasione per raccontare, descrivere, tramandare. La cultura africana ( e quella delle...tribù bianche non fa eccezione) si basa essenzialmente sull'indaba, sul racconto, sulla trasmissione a voce di fatti, leggende, storie....

In questa occasione uno dei protagonisti racconta dell'odio ancestrale tra il leopardo ed il babbuino. In realtà, tale leggenda é una novella da me scritta molti anni fa, per fornire una spiegazione un po' più ..poetica di un fatto che dà da pensare, uno dei tanti misteri dell'Africa.

 

.............Stephen rise, soffiando una nuvola di fumo aromatico, chiuse gli occhi e disse: " Ti racconterò una storia. Una storia che mi ha raccontato un amico, durante la guerra del bush.

Era del popolo dei  Matabele, un uomo coraggioso e fiero, che amava e conosceva la boscaglia... era un saggio. È morto tanti anni fa.

 

Questa è una storia d’odio.

Questa è la storia vera dell’odio profondo che corre da secoli tra la stirpe del leopardo e la tribù dei babbuini, un odio che non si estinguerà mai e che pare rinfocolarsi con il passare del tempo.

I cacciatori, spesso, credono che il leopardo ami la carne del babbuino e lo ambisca come preda.

Così non è.

Il leopardo preferisce la tenera carne del bushbuck e del klipspringer o quella saporita del facocero e del potamocero, e lo scoprirai da te, se proverai a porre dei baits per cacciare il grande felino maculato. Tra le due esche, l’una scimmiesca e l’altra di antilope, tu vedrai quale sceglierà Ingwe.

Ma il leopardo caccia Imfene, la scimmia-cane, per odio e disprezzo, così come fa, quando può, con inja, il cane, che detesta in quanto servo dell’uomo, altro suo eterno nemico….

Dal canto suo, anche il babbuino odia il leopardo, e non è raro il caso che due o più maschi abbiano ragione di lui.

Ma veniamo alla storia.

 

Si era a metà del giorno e sulle pendici occidentali dei monti Chimanimani il calore era intollerabile.

La pianura sembrava vibrare ed ondeggiare, nelle onde di calore che salivano, muovendo l’aria secca come un sottile velo da sposa.

La grande femmina di leopardo giaceva sotto una sporgenza di roccia, all’ingresso d’un profondo anfratto, e guardava verso Ovest.

Il manto era opaco ed incrostato, non lucido e pulito come avrebbe dovuto essere e, sotto la pelle maculata, si potevano contare le costole. La coda si muoveva nervosamente, da destra a sinistra, da sinistra a destra, come un metronomo…

Dietro di lei, un cucciolo giaceva, ansimando, nella relativa frescura della caverna, troppo spossato per giocare e tormentare la madre, come avrebbe dovuto fare ogni cucciolo di leopardo che si rispetti.

Era stata una terra felice, quella, eh si….una terra benedetta dagli dei della savana, dove la selvaggina abbondava, richiamata dalle abbondanti sorgenti d’acqua fresca, ricca di rifugi naturali, crepacci, roccioni e fitti intrichi di wait-a-bit, che offrivano sicurezza e conforto.

Ingonyama, l’incubo dalla grande criniera, non arrivava, il suo regno era la pianura, che si stendeva, fin dove lo sguardo arrivava, ai piedi delle montagne. Era, insomma, un vero paradiso terrestre.

Ma poi era arrivata la siccita’.

La grande sete aveva steso le sue avide mani, aride e screpolate, sulla pianura e sulle montagne.

Al suo tocco l’acqua delle pozze si era ritirata, lasciando il nudo fondo di fango secco, spaccato in un reticolo di crepe profonde, i fiumi si erano prosciugati, le sorgenti avevano cessato di piangere acqua, e persino i recessi più umidi della montagna, dove neppure nella stagione secca la terra si asciugava del tutto e dove i potamoceri si raggruppavano, erano diventati dei deserti, dove il muschio moriva, seccava e si disperdeva in polvere.

I pesci gatto ed i wundu, come sempre, si erano seppelliti nel fango, sul fondo dei corsi d’acqua, o rifugiati in qualche tronco cavo che marciva in fondo ad uno stagno o ad un ruscello, sicuri che, come ogni anno, sarebbero usciti da quella specie di letargo, in cui il metabolismo quasi s’azzera, con il ritorno delle piogge, ma erano passati dal sonno alla morte, perché l’acqua non era tornata ed il loro rifugio di fango, che avrebbe dovuto conservare quel minimo d’umidità, per consentir loro la sopravvivenza, si era trasformato in una solida bara di dura argilla ed i loro corpi si erano dissolti o erano stati riesumati e divorati da qualche iena o da qualche sciacallo affamato.

Quando era venuto il tempo delle nuove piogge, la terra riarsa e gli animali assetati l’avevano attesa invano.

La stagione delle piogge era stata una nuova stagione di siccità.

Poi era venuto il fuoco.

Gli incendi di savana, solitamente benefici, si erano trasformati in un ruggente tornado rovente, che aveva galoppato lungo la pianura, consumando ogni cosa.

Solo gli elefanti, più saggi e previdenti, si erano allontanati per tempo, prima del disastro, dirigendosi verso il grande Padre Fiume, ove l’acqua non manca mai, o verso le immense paludi dove lo Zambesi invade le terre basse, prima di perdersi nell’Oceano.

La vita era diventata un inferno e procacciare il cibo per se e per il cucciolo era un’impresa quasi disperata, per non parlare della sete.

Le antilopi e gli iraci erano diventati rari e diffidenti, e le prede più frequenti erano roditori, insetti, lucertole e serpenti.

I serpenti, quelli si, erano ancora abbondanti, ma non sempre cacciarli era saggio.

Mabalabala, che nella lingua dei figli del cielo significa: colei che ha molte macchie, così si chiamava la femmina di leopardo, sapeva che l’ultimo suo occasionale compagno, quello che era il padre del suo cucciolo, se n’era andato in un’agonia straziante, annaspando per trovare un po’ d’aria per i suoi polmoni immobilizzati, dopo aver catturato ed ucciso un vecchio mamba nero, combattivo e letale.

Il rettile era morto in un attimo, dilaniato dai terribili artigli, ma aveva inflitto al vecchio maschio numerosi morsi al muso ed alle zampe, ed il leopardo non aveva fatto a tempo a godersi il suo ultimo pasto.

Mabalabala lo sapeva, perché i resti del serpente e del suo precedente amante erano stati l’ultimo pasto abbondante per lei e per il suo piccolo, dato che i territori di caccia delle due fiere si sovrapponevano in parte, cosa questa possibile solo perché di sesso diverso.

Da allora di pasti decenti non ce n’erano più stati e lei era debole ed il cucciolo allo stremo.

Alzò gli inquietanti occhi verdi a guardare il sole che scendeva verso ponente……ancora troppo caldo….troppo presto per uscire a caccia, posto che qualcosa si riuscisse a cacciare….

Uno sgangherato coro di latrati ruppe il silenzio comatoso della montagna, rimbalzando in mille echi tra le rocce rossastre e le forre.

La femmina si alzò di scatto, mentre il suo piccolo, troppo stanco anche solo per provare curiosità, rimaneva disteso al suo posto, drizzando appena le orecchie tonde. Davanti a lei, a venti passi, quattro babbuini la fissavano, insolenti.

Erano due femmine e due giovani, male in arnese: il pelo sporco e arruffato, le ossa sporgenti dai corpi smagriti, muco giallo che colava dalle narici sull’orrido muso canino ed i piccoli occhi arroganti e cattivi sotto le prominenti arcate sovraorbitarie……Si dondolavano e la guardavano, sfottenti…..ma a Mabalabala parvero splendidi….

Carne, proteine, la salvezza, forse, per se e per il cucciolo.

In un balzo, il felino piombò giù dalla roccia e si lanciò, fulmineo, verso le prede, ma queste erano già scomparse, disperdendosi tra le pietre e gli arbusti spinosi. Il leopardo non si lasciò distrarre da questa manovra diversiva e puntò al rumore di rami e spine spezzati, prodotto da uno degli animali in fuga, il più vicino.

Il corpo snello e maculato si infilò, come una freccia, nell’intrico, dietro al rumore della preda.

Ma era mancato l’elemento sorpresa ed il suo fisico non era adatto ad un lungo inseguimento. Intorno a lei i babbuini berciavano e schiamazzavano e Mabalabala perse concentrazione e tempo prezioso.

Fu il rumore a fermarla.

Lo udì appena, ma era, per lei, inconfondibile: un guaito, il guaito di un cucciolo.

Mabalabala si precipitò verso il suo covo, appena in tempo per vedere un grande maschio di babbuino che si arrampicava sulle rocce, con il corpo esanime del suo cucciolo tra le lunghe zanne gialle.

L’inseguimento fu inutile; il piano delle scimmie per catturare il piccolo era stato diabolicamente astuto ed i ruoli di predatore e preda erano stati sovvertiti. L’ira disperata di Mabalabala era come la tempesta di fuoco che aveva consumato la pianura.

Corse e corse, come un leopardo non fa mai, vagando tra canaloni e rupi, non tanto nella speranza di trovare il piccolo, che sapeva ormai morto e divorato, quanto per la smania di vendetta che la consumava, ma i babbuini parevano svaniti nel nulla.

 

E venne la pioggia, finalmente.

Una pioggia torrenziale, che si incanalò tra le mille crepe della montagna, in rivoli, che confluivano in ruscelli, che confluivano in torrenti, che a loro volta si univano a formare cascate impetuose.

E piovve sulle ceneri della pianura e l’acqua disperse le ossa innumerevoli che costellavano la savana, riempì fiumi e fossi, dal fango e dalla cenere crebbe l’erba verde.

E ritornò la vita, dapprima timidamente, poi in maniera prepotente. Tornarono le antilopi e dietro a queste i predatori.

Anche gli elefanti, grigie navi, che navigavano nella bruma densa che saliva dal terreno, fecero ritorno, e tutto fu nuovamente come prima…..

Non tutto……

Muso-di-cane, il possente babbuino maschio, terrore dei rivali, nel branco numeroso che abitava il kopje, era occupatissimo nella raccolta di larve, eccezionalmente abbondanti, dopo le piogge. Il corpo, robusto e muscoloso, non recava più i segni dei disagi e del digiuno. La pelliccia era folta e lucida ed una criniera leonina gli incorniciava il muso cattivo, da lupo mannaro.

Sollevava delicatamente le pietre ed i rami, in cerca dei succulenti insetti.

Cinquanta metri più in alto, il branco rumoreggiava, immerso nelle consuete, scimmiesche incombenze: litigi, rincorse, spulciamenti…..La vita era bella!

Muso-di-cane vide un invitante ceppo marcescente, che imputridiva all’ombra di una rupe, tutto ciò che restava di un imponente albero di fico selvatico, abbattuto dalla folgore. Chissà che pullulare di squisite larve là sotto!

Il grosso babbuino vi si diresse con la sua indolente, dinoccolata andatura, si sedette ed iniziò delicatamente a rimuovere schegge morbide di legno macerato, mettendo a nudo il dedalo di corridoi e stanze scavati da generazioni di insetti.

Un lampo giallo balenò nella penombra del sottobosco. Muso-di-cane si girò, fulmineo, verso il pericolo, ma venne investito e scaraventato a terra da un ciclone di zanne e artigli.

Fece a tempo a vedere due occhi di smeraldo, che lo fissavano, vuoti come la morte, poi le fauci di Mabalabala si chiusero sul suo cranio ed un turbinare di artigli, affilati come rasoi, scavò via le interiora dalla cavità addominale lacerata.

Mabalabala scosse la testa come un gatto e minuscole goccioline di sangue, color rubino, si dispersero nell’aria.

Si leccò delicatamente una zampa, poi si alzò, indolente, con un unico, fluido movimento, si stirò, e guardò, una volta sola, intensamente, nella direzione del branco che, ignaro, schiamazzava poco distante.

Sarebbe tornata…oh si, sarebbe tornata. L’incubo avrebbe visitato ancora il popolo delle scimmie dai lunghi denti.

 

Mabalabala ebbe altri figli ed a tutti trasmise quell’odio che covava nel profondo del cuore, e questi lo trasmisero ai loro figli, cosicché, oggi, tutti i leopardi sanno, d’istinto, che gli infingardi babbuini meritano di morire.”

 

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MOZAMBICO

Provincia di Niassa

In un remoto villaggio presso la sponda orientale del lago

NOVEMBRE

 

 

Aveva diluviato tutto il giorno.

Una nebbiolina si levava dal terreno zuppo ed il caldo era soffocante.

Nel cielo transitavano lentamente basse nuvole gonfie di pioggia, cui faceva da sfondo lo strato più alto di cumuli color ghisa.

Il villaggio, costituito di poche capanne di fango, dai tetti conici, coperti da fasci di canne palustri, sostenuti da pali rozzamente sgrossati, sorgeva in una spianata in mezzo alla boscaglia.

Il fumo dei fuochi di legna umida, saliva, confondendosi con la foschia, mentre risuonavano risate di bambini ed abbaiare di cani.

Sembrava che, dopo il diluvio, il cui scroscio aveva soffocato ogni altro rumore, la vita tornasse a riaffiorare prepotente, ma si trattava solo di una breve tregua; presto le cateratte del cielo si sarebbero aperte di nuovo.

Era evidente che la piccola comunità di Nyanya, che letteralmente significa "gente del lago”, volesse approfittare al massimo di quella parentesi; i bimbi si rincorrevano, gli uomini uscivano e si dirigevano verso il lago, sperando che le onde permettessero una breve uscita sulle piroghe, per catturare un po' di pesce.

Certamente, nella stagione delle piogge, le lunghe uscite al largo o addirittura fino all'isola di Likoma, non erano possibili, troppo alto il rischio di essere sorpresi dalle tempeste che, su quel grande mare interno che è il lago Niassa, il terzo più esteso di tutta la Africa, lungo quasi seicento chilometri e profondo seicento metri, possono sollevare onde di tre o quattro metri, talmente ripide e ravvicinate da frantumare non solo una piroga, ma battelli ben più robusti.

I pescatori si sarebbero limitati al massimo ad una breve uscita per gettare le reti sotto costa.

Il lago è uno dei più pescosi del continente nero e vi vivono oltre cinquecento specie di pesci, di cui molti esclusivi di quelle acque: in buona parte si tratta di ciclidi, tra cui il colorato mbuna,  e la principale fonte di sostentamento, a parte la coltivazione di sorgo, miglio e manioca, è proprio la pesca.

Il pescato viene consumato dalla comunità e conservato tramite affumicatura.

A volte, nella stagione secca, quando pochi coraggiosi si sobbarcano il lungo viaggio verso sud, viene venduto nella cittadina di Metangula.

Il viaggio richiede diversi giorni, non scevri di pericoli, e porterà i viandanti a costeggiare le selvagge e deserte rive del lago, sino ad oltrepassare il villaggio di Chuwanga, prima di giungere all'abitato, dove potranno vendere il pesce ed acquistare qualche oggetto, utile o frivolo, che solletichi la loro fantasia o la loro vanità.

Il gruppo di pescatori ispezionò le piroghe, trascinate in secca a buona distanza dall'acqua, per evitare che venissero ghermite dalle tempeste, e coperte di frasche, ma pochi, solo i più audaci, decisero di mettere in acqua il loro primitivo natante, ricavato scavando con il fuoco un tronco d'albero, e di tentare la sorte.

Gli altri esplorarono le rive, verso Sud e verso Nord, sperando di catturare qualche sibissì (49) o ratto delle canne, dalla tenera carne che sa di coniglio.

Questi roditori, ricercatissimi, non solo vengono cacciati, ma anche allevati, e sono di notevole importanza nella vita sociale, come animali da cortile, tanto che, spesso, costituiscono una sostanziosa dote o parte di essa nei matrimoni tribali.

Le nuvole si andavano addensando nuovamente, tanto da nascondere la cima del monte Txitonga, che troneggiava sull'infinita distesa della boscaglia di miombo ( Brachystegia) che ricopre tutta l'area, interrotta solo dagli affioramenti degli enormi inselberg, veri monoliti rocciosi di origine vulcanica, che si ergono dal bush come menhir.

Il cielo si preparava ancora a scaricare sulla terra una cortina d'acqua scrosciante e tutte le piccole attività che avevano luogo in quel momento sulla riva  erano interrotte da frequenti occhiate ansiose all'orizzonte, dove il lontano brontolio del tuono ed il zigzagare dei fulmini rammentavano che la stagione delle piogge andava verso il suo culmine.

Di tanto in tanto, un grido o un richiamo segnalavano la scoperta di qualcosa di commestibile; un varano sorpreso all'aperto o una grossa rana-toro, che si sarebbero aggiunti alla dispensa, per offrire una gradita variazione alle eterne polentine di mais o di manioca.

Insieme all'acqua, nel continente nero la carne è il bene più ricercato ed ambito, proteine nobili per pance affamate, non per nulla la parola nyama (carne) è quasi universale e compresa da genti di lingue totalmente diverse, in quasi tutta l'Africa.

Al villaggio, intanto, le donne sbrigavano le faccende domestiche, attendendo il ritorno degli uomini dal lago.

Erano ormai le cinque del pomeriggio e, in capo a un'ora, sarebbe stato buio, non era saggio farsi sorprendere dalla notte fuori del villaggio; i leoni esigevano ogni anno un pesante tributo in vite umane, nella zona, ed anche gli uomini, armati di semplici zagaglie e fiocine, presto sarebbero rientrati.

Due giovani donne stavano lasciando, in quel momento, il villaggio, dirette al fiumiciattolo che scende dal monte Txitonga.

Portavano ognuna, in equilibrio sulla testa, un grande vaso di coccio per l'acqua e chiacchieravano e ridacchiavano allegramente, mentre, a passo svelto, si dirigevano verso il canneto che bordava il corso d'acqua.

Nello stesso istante, a quattrocento metri da loro, nel fitto degli steli di papiro, una brigata di francolini si muoveva cautamente verso il bordo esterno del canneto, per uscire allo scoperto e raggiungere l'usuale luogo di pastura.

Uno stretto sentiero, largo non più di un metro, aperto dall'abituale passaggio degli abitanti del villaggio e di numerosi animali selvatici diretti all'acqua, attraversava la fascia di vegetazione fluviale alta e rigogliosa ed immetteva sulla riva del fiume.

I volatili, in fila indiana, sbucarono in quel corridoio e lo imboccarono, allontanandosi dall'acqua, nella direzione dalla quale, presto, sarebbero arrivate le due ragazze Nyanya.

Sul bordo destro di quello stretto passaggio, immobile ed invisibile tra gli alti steli, la morte attendeva, paziente.

Neppure l'occhio allenato del più esperto cacciatore avrebbe distinto qualcosa.

Il piede delle canne era immobile, mentre le sommità fluttuavano lentamente nella brezza calda e pesante, ed il corpo del serpente, immobile sul terreno, si confondeva nel fitto, non un movimento ne tradiva la presenza.

Le squame lisce e minuscole, color del bronzo, lo mimetizzavano alla perfezione tra le canne.

La parte anteriore del corpo, lunga e sottile, era sollevata in una elegante curva ad esse, simile al doppio tornante di una strada di montagna, sicché la testa si trovava lateralmente alla parte del corpo che stava sul terreno, ma tenuta sollevata a circa mezzo metro.

Diversamente dalle spire, che poggiavano al suolo, il collo e la lunga testa, compressa lateralmente, a forma di cassa da morto, ondeggiavano lentamente, da destra a sinistra e da sinistra a destra, in perfetta sintonia con la sommità della vegetazione, mimandone il movimento e rendendo il predatore invisibile.

Il collo, piuttosto esile per la mole dell'animale, presentava, nette, sul color rame delle squame, alcune bande più scure, nere nella parte ventrale e che tendevano al marrone su quella dorsale.

La lunga, flessibile lingua biforcuta saettava, ad intervalli regolari, fuori della bocca chiusa, attraverso l'apposita fessura labiale, catturando ogni più piccola particella odorosa: quando la lingua veniva ritirata, le due punte si adagiavano in due fossette sul palato dell'animale, gli organi di Jacobson, dove sensibilissime cellule olfattorie captavano le molecole odorose ed inviavano le relative informazioni al cervello, in modo non dissimile dalle antenne degli inserti o dalle vibrisse dei felini.

La doppia punta di quell'organo così sensibile aveva lo scopo di dare precise informazioni sulla direzione da cui provenivano le informazioni, in maniera, per così dire, stereofonica.

L'occhio, dalla pupilla rotonda, era posto a circa metà strada tra l'apice del muso e la commessura labiale e la linea a concavità superiore, disegnata dalla rima buccale, che si estendeva ben più indietro, pareva un malvagio sorriso, pronto a spalancarsi quando l’animale avrebbe deciso di colpire.

I francolini si dirigevano zampettando, del tutto ignari, verso di lui ed anche se, in realtà, il serpente in agguato attendeva l'oscurità per insidiare i ben più sostanziosi sibissì che, al calar delle tenebre, avrebbero intensificato la loro attività nel canneto, anche un modesto francolino non era una preda disprezzabile e già ne avvertiva, attraverso il terreno, l'avvicinarsi.

Pur non possedendo orecchio esterno ne' timpano, in grado di registrare i rumori che si propagano attraverso l'aria, tuttavia la mortale creatura era in grado di avvertire le vibrazioni trasmesse dal suolo, anche le più insignificanti, e di interpretarle correttamente.

Ancor prima che gli occhi gli permettessero di distinguere il bersaglio, il predatore sapeva di che si trattava ed il suo stato di allerta aumentò, anche se, all'apparenza, nessun cambiamento si era verificato nella sua postura e nei lievi movimenti del capo.

Le vibrazioni aumentavano, indicando l'approssimarsi della preda, ed il serpente si preparò a colpire.

Poi, all'improvviso, si verificò un cambiamento, un fatto inatteso: nuove vibrazioni, provenienti da maggiore distanza e da un'altra direzione, ma più incisive, disorientarono per un brevissimo istante il suo primitivo cervello di rettile.

Il tutto durò una frazione di secondo, prima che i suoi meccanismi neurologici, relativamente primordiali ma affidabili, gli comunicassero che un grande animale, troppo grande per essere una preda, si avvicinava da Sud.

Ancora una volta nulla parve cambiare: il corpo era ancora immobile, la testa ondeggiava in sintonia con le canne, ma, all'istinto della caccia, si era sostituito quello di pura sopravvivenza. Un grosso animale..... poteva essere un predatore, anche se solo un predatore alla disperazione per carenza di cibo avrebbe osato attaccarlo.

Poteva anche essere un grosso erbivoro, in grado di calpestarlo, dal momento che, a differenza di altri rettili, lui affidava la propria difesa al mimetismo, all'immobilità ed al suo mortale veleno, anziché ad una rapida fuga tra le paglie...... oppure uno degli strani, pericolosi animali che vivevano più a sud e che spesso, nella stagione secca, bruciavano le paglie, costringendolo a fughe precipitose cui non era avvezzo.

La naturale irritabilità del serpente, un maschio adulto, era accresciuta da un'altra circostanza: si era alla fine della primavera australe, la stagione degli  accoppiamenti, e la sua territorialità si era accresciuta, di pari passo con l'aggressività, ed ogni intrusione era considerata una minaccia, una provocazione.

La voce delle due giovani Nyanya iniziò a raggiungere il canneto, ma solo i francolini potevano sentirla e si arrestarono allarmati ed incerti, poi, dal momento che il potenziale pericolo si avvicinava, gli uccelli ruppero in un fragoroso frullo, si alzarono in verticale fin sopra la distesa di canne e poi piegarono  in un veloce volo attraverso il fiume, per rimettersi duecento metri più in là.

Lo spostamento d'aria, causato dal battito rapidissimo di tante piccole ali, irritò ulteriormente il serpente, la cui testa arretrò di scatto di alcuni decimetri, pronta a colpire.

A dieci metri di distanza, le due ragazze si fermarono e una di esse indicò all'amica il volo dei francolini che pareva esplodere dal terreno, poi le due donne ripresero a camminare verso la tragedia.

I piccoli tremori del terreno aumentarono ancora rapidamente ed il livello di allarme e di irritazione dell'essere che si celava tra le canne era al culmine.

Quando le due giovani passarono davanti a lui, sul sentiero, si trovarono a meno di un metro e mezzo di distanza.

Ogni animale selvatico ha, intorno a sé, una serie di perimetri virtuali, che variano enormemente da specie a specie e, nell'ambito della stessa specie, a seconda dell'ambiente: il più esterno è il cosiddetto perimetro di allarme, vale a dire la distanza massima che l'animale concede ad un potenziale pericolo prima di darsi alla fuga.

Viene poi il perimetro di fuga; gran parte dei selvatici, avvicinati fino all'interno di quest'area, reagiscono, appunto, fuggendo o immobilizzandosi, se sono specie che si affidano al mimetismo.

Il più interno, coincide con la zona di pericolo immediato e, in molti casi, è il perimetro di attacco: l'animale sente che l'aggressore è troppo vicino per tentare una fuga o una manovra diversiva e carica o aggredisce per difendersi.

Se solo le due donne fossero passate un metro più a sinistra, probabilmente il lungo corpo sarebbe rimasto immobile finché le intruse si fossero allontanate, ma le giovani stavano transitando abbondantemente all'interno della sua area di pericolo, quell'ultimo confine che, stanti le dimensioni, superava abbondantemente i due metri, inoltre l'aggressività del maschio era, in quel periodo, al culmine.

Udendo il basso sibilo minaccioso proveniente dalla loro destra, le Nyanya si fermarono spaventate, ed in quel preciso istante la testa scattò, ad una velocità di più di 20 metri al secondo.

Mentre il collo ed il corpo muscoloso proiettavano in avanti la testa, come un ariete, l'ampia bocca si spalancò e le due zanne velenifere, lunghe più di un centimetro, furono protese quasi orizzontalmente in avanti dal mascellare superiore , sollevatosi a dismisura.

Il primo colpo raggiunse la ragazza più vicina alla guancia, appena sotto l'occhio; le zanne penetrarono a fondo, mentre i muscoli masseteri spremevano le ghiandole velenifere, iniettando nel sottocute una dose pari a cento milligrammi di veleno, poi la testa arretrò, in una frazione di secondo, di trenta o quaranta centimetri, per colpire nuovamente il braccio nudo che si era sollevato istintivamente a proteggere il viso.

Il terzo affondo del rettile raggiunse l'attaccatura della coscia della poveretta, mentre questa cadeva all'indietro orripilata, all'interno, vicino all'inguine, e le zanne penetrarono il sottile tessuto e si piantarono a fondo nel muscolo.

La testa, infine, rinculò alla posizione iniziale, mentre un lungo sibilo rabbioso avvisava le intruse di allontanarsi.

L'aggressione era durata molto meno di un secondo, sufficiente tuttavia ad iniettare, in tre riprese, più di quattrocento milligrammi di un veleno che era in grado di uccidere un uomo nella dose di 7 o 8 milligrammi.

La donna che era stata colpita si era allontanata freneticamente di un metro o due, spostandosi da seduta, sulle mani e sulle natiche, senza smettere di urlare, mentre la sua amica, incolume, era corsa per circa 20 metri e poi si era fermata, angosciata, e le gridava di fuggire.

Abbandonati a terra i vasi in frantumi, le ragazze coprirono correndo le poche centinaia di metri che le separavano dal villaggio, in cui irruppero, sempre urlando, mentre, quasi a sottolineare la tragicità del momento, un lungo, fragoroso tuono accompagnava l'inizio di un nuovo acquazzone.

E'nyoka......E'nyoka..... A quelle parole, gran parte degli abitanti uscirono dalle capanne e circondarono le due donne, mentre la ferita, pur non accusando ancora i veri sintomi dell'avvelenamento, si accasciava a terra per la paura e lo shock.

Mani premurose la sollevarono e la portarono nella capanna grande del consiglio, intanto la sua amica, con parole concitate e spezzate dal pianto, raccontava l'accaduto.

Gli uomini erano rientrati e fuori la pioggia tamburellava sui tetti, ruscellando lungo i muri di fango.

Fu subito chiamato il curandeiro, l'uomo della medicina, che preparò i suoi amuleti e le sue erbe, mentre le donne spogliavano l' infortunata, poi il sangoma interrogò  entrambe le giovani, scuotendo il capo, mano a mano che il racconto procedeva, e si mise a disporre pietre, ossicini e conchiglie, in una misteriosa geometria, sul corpo della ferita, cui venne somministrata una bevanda.

Erano trascorsi  venti minuti dall'incidente e la donna già sperimentava i primi allarmanti sintomi, anche se era confortata dalla presenza del curandeiro: le labbra formicolavano e divenivano insensibili, mentre i muscoli sollevatori delle palpebre iniziavano a non funzionare più, non riusciva a tenere gli occhi completamente aperti, la visione si sdoppiava e provava crescenti difficoltà a deglutire ed a parlare.

L'uomo della medicina la affidò a due anziane e radunò i presenti nell'angolo opposto della grande capanna.

" La donna è stata presa da E'Nyoka, lo spirito malvagio dei canneti, e neppure la mia potente medicina può salvarla.

Di tanto in tanto, voi tutti lo sapete, E'Nyoka esige un sacrificio; spesso prende un uomo o una donna che hanno commesso qualche colpa, e lui si prende la loro vita, oppure ghermisce un bambino, per punire i genitori. Ma questo è un caso diverso. "

Tutti erano mortalmente seri e attenti alla parola del saggio.

" Talvolta lo spirito dei canneti sceglie una donna giovane ed in età fertile: le toglie la vita, ma ciò gli serve per procreare, affinché la sua stirpe non si estingua.

Tutti voi avete visto: E'Nyoka ha piantato le sue zanne nel viso e nel braccio della donna per sottometterla, poi ha affondato il suo doppio pene nel grembo della giovane, soffiando in lei il suo spirito, l'ha posseduta, ed ora, non appena lei morirà, partorirà un nuovo spirito maligno.

Ciò accadrà prima del mattino, prima che il suo corpo si raffreddi.

La donna è condannata.

Non appena sarà morta, il suo corpo verrà portato al lago. Piove e non è possibile accendere un fuoco, quindi porterete delle braci, negli orci di terracotta, poi il corpo verrà posto in una piroga, coperto di braci ardenti per impedire che il nuovo spirito venga al mondo, infine la piroga sia spinta nel lago.

Così ho detto. Così mi hanno comandato gli spiriti buoni del lago. "

Quando i presenti si radunarono nuovamente intorno al giaciglio della ragazza, il suo diaframma ed i muscoli intercostali erano quasi completamente paralizzati, al pari di gran parte dei gruppi muscolari degli arti.

Il viso era coperto di goccioline di sudore freddo, nonostante l'afa, e l'angoscia nei suoi occhi era penosa a vedersi, mentre tentava, inutilmente, di immettere un po' di ossigeno nei suoi polmoni inerti ma, sfortunatamente, era ancora cosciente.

Poi, misericordiosamente, 90 minuti dopo l'aggressione, il suo cuore si fermò.

 

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  ....dopo l'attacco di un gruppo di predoni........

 

............Taylor si alzò, gli pose una mano sulla spalla e lo costrinse a sedersi.

" Adesso calmati, Paolo. Non serve a nulla  farsi prendere dall'isterismo.

Certo, dobbiamo seguirli e trovare un sistema per liberare le donne, ma se ci buttiamo allo sbaraglio e ci facciamo ammazzare non saremmo loro di grande aiuto, ti pare? "

" Scusami, Steve, hai ragione, sono sconvolto e sragiono. Cosa proponi? "

Steve si accovacciò e fece cenno agli altri di avvicinarsi, poi, con un cenno, chiamò anche Mpumelele e conferì brevemente con lui in zulu.

Il tracciatore pareva calmissimo, il suo largo viso scuro non rifletteva alcuna emozione, ma dentro di lui ribolliva una rabbia letale: quelle scimmie avevano portato via la sua donna e questo era un affronto che solo molto sangue avrebbe potuto lavare.

L'antico guerriero degli impi di re Chaka era stato risvegliato dal suo sonno e la lama del suo assegai era assetata, ora.

Dopo aver ascoltato il parere dello zulu, Stephen spiegò ai suoi amici: " Non sappiamo esattamente quanti siano gli assalitori, Mpumelele stima possano essere una decina. Sono armati e pericolosi, probabilmente degli sbandati, ex guerriglieri, che, finita la guerra civile, si sono dati al brigantaggio.

Ci sono molte bande di questo genere in giro per l'Africa!

Al momento noi siamo in condizioni di netta inferiorità e loro lo sanno bene, per cui non si sentiranno spinti certo dalla paura di una ritorsione ad allontanarsi il più possibile da noi.

Anzi, è probabile che il loro campo sia nelle vicinanze.

Saranno sul chi vive, questo si, ma non si aspetteranno certo che noi li attacchiamo. Penseranno che noi cercheremo di raggiungere un posto da cui avvisare le autorità, per cui se ne fregheranno altamente, dal momento che sono convinti che impiegheremmo molto tempo, così appiedati, a raggiungere un avamposto civile.

Probabilmente non sanno che abbiamo i Toyota nascosti a mezza giornata di cammino da qui......... almeno lo spero.

Spero ardentemente che non li abbiano scoperti, ma è improbabile, Mpumelele li ha mascherati bene ed ha cancellato le tracce..... e lui non è un dilettante.

Ora ascoltatemi attentamente, questo è il piano. Anzi, per la verità, è l'unico piano che mi viene in mente, l'unica probabilità di salvare Helen e Siboniso. "

Lorenzo lo interruppe.

" Cosa credi che faranno di loro?............ Voglio dire, non pensi che le..... " la voce gli si incrinò.

" No, Lorenzo, non credo le uccideranno.

Almeno, se devo essere onesto, non subito. Potrebbero decidere di eliminarle in seguito, se si rivelassero un problema o un impaccio, ma per ora credo siano relativamente al sicuro "  mentì.

Paolo, cupo, intervenne.

" Al sicuro, dici? Quei bastardi le......... le violenteranno di sicuro. "

La voce del cacciatore si indurì. " Ascolta bene, Paolo, e smettila di frignare.

Non posso certo escludere che le violentino......... ad ogni modo se le uccidessero sarebbe ben peggio e noi non potremmo più fare nulla per aiutarle.

Se le hanno rapite e non le hanno uccise subito significa che, almeno per un certo periodo di tempo, le vogliono vive.

Il motivo?..... Non lo so, anche se posso fare delle supposizioni.......

Adesso non possiamo permetterci di farci sopraffare dal sentimentalismo: siamo in guerra, ora, e dobbiamo essere freddi e lucidi. Ne va della loro vita.

Ragioniamo: perché le hanno volute portare via vive? Ci possono essere diverse risposte.

Uno: vogliono divertirsi con loro....... Certo, credi che non l'abbia considerato? È orribile, lo so, ma questo ci dà un vantaggio, ci concede il tempo di organizzarci e di contrattaccare.

 Due: vogliono un riscatto.......! Forse....... ma lo reputo improbabile. A chi chiederebbero un riscatto? Non a noi, di certo. Sanno che siamo senza il becco di un quattrino, derubati di tutto.......ci considerano ormai dei pezzenti innocui e trascurabili. No.        

Tre: l'ipotesi per me più probabile è che, dopo essersela spassata con loro, cerchino di venderle. "

" Di venderle? " esclamarono all'unisono i due italiani.

" Si, di venderle.

Cosa credete, che lo schiavismo sia del tutto scomparso? Balle! In Africa le mogli si comprano e si vendono, ragazzi, e Siboniso potrebbe essere ceduta a qualsiasi pezzo grosso locale. E pagata bene.....

In quanto ad Helen..... avete mai sentito parlare di tratta delle bianche? "

Un silenzio cupo calò sul gruppo.

" Ok. Adesso vediamo di elaborare un piano, anziché starcene qui a piangerci addosso.

Al momento siamo indifesi come un gruppo di educande in gita scolastica.

La situazione è la seguente: il 375 di Jordan è stato portato via, io ho il mio 470 con ben due cartucce..... c'è di che scialare....... poi c'è il calibro 12 con otto cartucce a munizione spezzata e Mpumelele ha il suo assegai ed un panga.

Un pò poco, non vi pare, per attaccare un gruppo di guerriglieri armati di Kalashnikov?

Bisogna che, almeno, recuperiamo il 338 di Jordan alle auto, ma, allo stesso tempo, occorre localizzare il rifugio di quei bastardi.

Faremo così, come suggerisce Mpumelele.

Io e Walter, che è un forte camminatore, raggiungeremo il più velocemente possibile i Toyota, prenderemo il Lapua con le relative munizioni e, perché no, anche il fucile subacqueo di Lorenzo, anche quella è un'arma dopo tutto e tutto può tornar utile. Intanto voi andrete con Mpumelele, che seguirà le tracce e localizzerà il loro covo. "

Mentre parlava, la guida tracciava col dito un'approssimativa mappa sul terreno.

" Il gruppo si è diretto a sud, il che significa che, dal momento che hanno bisogno di acqua, con ogni probabilità saranno accampati da qualche parte sul corso del Moola....... qui!.........

 

 

 

 

 

Alcune pagine tratte da Il re del Congo

 

Il mio nome è Libero e nacqui nel 1885, in Italia.

Il mio cognome.... che importanza ha? Da così tanti anni non lo pronuncio per nessuno e nessuno lo pronuncia per rivolgersi a me che mi suonerebbe quasi estraneo. Eppure era un cognome conosciuto e stimato, in tempi che mi paiono ora lontanissimi, e mio padre si fregiava del titolo di conte, ma anche questo non ha più alcuna importanza; la mia famiglia finirà con me.

Il mio Paese subì, in quegli anni della mia prima giovinezza, cambiamenti e rivolgimenti enormi, ma non solo il mio Paese: l'Europa intera ed il mondo cambiarono.

Era la Belle epoque, un’epoca di progresso tumultuoso e gagliardo: la tecnologia procedeva a passi da gigante, la qualità della vita migliorava rapidamente, con il diffondersi di servizi quali l’energia elettrica, le strade, a volte asfaltate, reti fognarie efficienti. La cultura e l’arte trovavano un terreno fertile e facile per migliorare e perfezionarsi,  le scienze avevano fatto progressi travolgenti, e, tra queste, la zoologia era quella che sicuramente affascinava di più il bambino che ero, in quegli ultimi, felici anni del secolo scorso.

Non era ancora giunta alla sua fine l'era delle grandi esplorazioni ed immensi territori misteriosi attendevano di essere svelati, e questa era la seconda grande passione della mia vita da adolescente.

La terza, che era forse conseguenza diretta delle prime due e che si sarebbe rafforzata con l'andar degli anni, seguendo mio padre tra paduli e monti, fu forse quella che condizionò di più la mia vita.

E non solo la mia.

I libri sugli animali dei grandi naturalisti, Brehms, Figuier, Buffon, furono compagni fedeli di tante ore trascorse nella villa paterna, quando fuori la pioggia scrosciava uggiosa e monotona o quando la neve cadeva lenta e turbinante o il gelo faceva scricchiolare i rami della vecchia quercia e zittiva persino il chioccolare dello scricciolo, fuori, nella legnaia. Allora io, disteso prono sul grande tappeto, davanti al camino acceso, i gomiti ancora ossuti puntati sulla morbida trama di lana ed il mento appoggiato sui pugni chiusi, scorrevo le pagine di tomi pesanti e rilegati in pelle, con disegni di esotici animali, oppure bevevo avidamente i racconti di esploratori intrepidi, di viaggi tra belve feroci e malattie misteriose e mortali, mentre avvertivo distrattamente, sulla schiena e sulla nuca, lo sguardo affettuoso ed un po' perplesso di mia madre, forse, a volte, anche un tantino preoccupato:" Ma cos'avrà di strano questo benedetto ragazzo? Perchè, anziché correr fuori a giocare o  fare a palle di neve, sta lì per ore, davanti ad un libro?"

In realtà io correvo fuori, eccome, anche troppo, ma a tempo debito, quando non urgeva in me l'ansia di sapere, di conoscere.

Mio padre brontolava, bonario, che se solo mi fossi applicato allo studio dei libri scolastici la metà di quanto ponzavo su quei venerandi tomi, sarei stato il primo della classe e non il penultimo o, se andava bene, il terz' ultimo.

Quando correvo fuori lo facevo con altrettanto impegno ed entusiasmo, anche questi ben maggiori di quelli che mettevo nell'attività scolastica, ed allora mia madre brontolava per questi miei eccessi opposti.

Nella bella stagione mi arrampicavo a rubar nidi sul melo, mi tuffavo nell'acqua limpida e fredda dello stagno, pescavo le grasse carpe di fondo, che "pasturavo", prima,  con pezzetti di polenta, per renderle confidenti e pronte ad abboccare, oppure acchiappavo le rane e le bisce dal collare, spesso per far morire di paura la maestra o qualche parente, nascondendole nei cassetti.

Se c'era la neve  facevo il toboga giù dalla collina, o costruivo mostruosi pupazzi di neve, ma più spesso trascorrevo ore nel bosco a seguire e disegnare sul mio fedele taccuino, rilegato in nero, le tracce dei suoi mille abitanti. E non mi separavo mai dalla mia fionda, arma con cui ero diventato una specie di Buffalo Bill, suscitando  l'invidia degli altri ragazzi, o dall'arco, costruito con uno stagionato bastone, di quelli usati dall'ortolano per far crescere dritti i fagiolini, con le frecce ricavate dalle stecche degli ombrelli che, compiacenti, avevano già una provvidenziale " cocca" per la corda, una sorta di biforcazione ad Y .....Ed erano le galline del pollaio della vecchia Cilia a fornire, volenti o nolenti, gli impennaggi.

I miei fratelli, Umberto, Ademaro ed Ettore, erano meno irrequieti e vivaci di me, ma, pur essendo fratelli (che, a quell' età, spesso significa "avversari", anche se avversari a cui si vuol bene), non erano malaccio, non mi angariavano, non più di tanto (parlo di Ademaro ed Ettore, che erano più grandi) ed i dispetti e i bisticci non erano frequenti ne' troppo tempestosi.

Ma la bella epoca finì e sopraggiunsero tempi più bui.

Mia mamma morì di polmonite e fu una perdita incolmabile, che finì per uccidere lentamente anche mio padre. Venne la guerra, nel 1914, e quel conflitto, che avrebbe causato più di dieci milioni di morti, fece bruscamente finire un’età dell’oro.

La fine giunse inaspettata e lasciò il mondo attonito; l’euforia della pace e delle conquiste tecnologiche cedette ad un’orgia di distruzione, in cui anche il progresso giocò un sinistro ruolo. E noi fratelli partimmo, tutti e quattro.

Io fui un privilegiato, in quanto, grazie a conoscenze influenti di mio padre, al fatto di appartenere ad una famiglia dell'aristocrazia ed alla mia naturale predisposizione per l'avventura, ero entrato in un reparto della cavalleria ed avevo indossato i panni dell'aviatore, ed imparato a pilotare quelle nuove, stupefacenti macchine volanti, macchine prodigiose che, come sempre accade col genere umano, non fanno in tempo ad essere inventate che già trovano un utilizzo distruttivo. 

E così vidi la guerra dall'alto, da un rombante Spad, uccello rapace di legno, tela e acciaio, senza sporcarmi le mani di sangue, almeno non nel senso letterale del termine, perchè il nemico era sempre abbastanza distante da non vedere il ghigno di un uomo che muore o le sue budella sparse sul terreno.

Mio fratello Umberto cadde in combattimento, con il General Cantore, al Passo di Fontana negra, sulle Tofane, ma noi tre sopravvivemmo, anche se Ademaro aveva riportato una brutta ferita, e finalmente la guerra finì.

Mio padre morì poco dopo, minato, nel fisico e soprattutto nello spirito, dalla morte di mia madre e noi tre ci ritrovammo spaesati e disorientati. Soprattutto i miei fratelli.

Loro avevano conosciuto la guerra di trincea, sulle montagne, una guerra infernale, dove freddo, precipizi, valanghe, uccidevano almeno quanto le bombe, le pallottole e le baionette del nemico, e, sebbene l'avessero combattuta da ufficiali,  la fine della guerra, il ritrovarsi, all'improvviso, catapultati nel mondo "normale", era stato un trauma altrettanto violento.

Non riuscivano più ad ambientarsi, ne' ad assaporare la vita, che riprendeva, prepotente, nelle città e nei paesi,  che ardeva dal desiderio e dall'impazienza di rifarsi degli orrori di quegli anni.

L'Europa, stremata dal conflitto, si avviava verso un' incerta e indefinita “età di mezzo” con un'incoscienza ed una voglia di eccessi che loro, che noi,   non riuscivamo a condividere.

Il patrimonio lasciatoci da nostro padre, ciò che ne era rimasto,  andava amministrato, e nessuno di noi aveva la voglia ne' l'entusiasmo per farlo. E così, quando io, sentendo riaffiorare l'antica passione per terre lontane, per l'avventura e per gli animali, buttai lì la mia intenzione di trasferirmi in Africa, fu con stupore che sentii Ettore ed Ademaro aderire prontamente.

Si era a Gennaio del 1920, ed anche loro avvertivano nelle ossa i cambiamenti, in peggio, che l’Europa covava.

Le consuetudini, i rapporti interpersonali, il concetto di moralità e persino la sessualità stavano cambiando, per non parlare della politica, di cui, d’altra parte, nessuno di noi si occupava.

Il progresso, a volte, finivamo per percepirlo non più come un’esaltante sfida, ma come una latente minaccia, colpa forse anche di ciò che aveva dimostrato di saper fare durante la guerra: all’entusiasmo ed all’aspettativa per nuove invenzioni era subentrato un rancido rimpianto per i bei tempi andati.

Quando parlai dell’Africa, fu come se un brivido d'eccitazione ci avesse percorsi, riportando in noi l'appetito per la vita: riprendemmo a fare progetti, piani, e ci sorprendemmo a discutere animatamente ed appassionatamente di dove avremmo dovuto andare....

L'idea di cambiare vita, radicalmente, di cambiare...aria, di lasciarci alle spalle ricordi dolorosi ed un mondo in cui più non ci sentivamo a nostro agio, ci elettrizzava.

Ovviamente, uno dei primi paesi africani che prendemmo in considerazione fu la Somalia italiana, ma i miei fratelli erano perplessi per alcuni avvenimenti recenti: i ribelli del Mullah Sayed Mohamed Abdullah Assan, il Mullah pazzo, che da quasi 30 anni imperversavano nel Somaliland, creando agli Inglesi non pochi problemi, sconfinavano e razziavano anche nella colonia italiana, ed ultimamente l’esercito britannico aveva scatenato contro di essi una grande offensiva, che minacciava di spingerli vieppiù sui nostri territori.

Ma, per quanto mi riguardava, più che i ribelli mi preoccupavano le descrizioni che di quelle plaghe avevo udito o di cui avevo letto: terre sostanzialmente aride, a volte bruciate e secche, pur se ricche di animali, mentre io sognavo la lussureggiante foresta equatoriale esplorata da Stanley Henry Morton, un frusciante mondo verde, abitato da elefanti, portatori di zanne gigantesche, e da tribù di Pigmei; un mondo di misteri ancora da scoprire.

Ebbi quindi buon gioco nel proporre il Congo belga, ancor più per il particolare, non trascurabile, che in quell’immensa colonia si era insediato, tempo addietro, ed aveva acquisito notevole influenza e potere, un fraterno amico di nostro padre, il conte Torre, un diplomatico di carriera, che aveva poi prosperato con il commercio del legname e con le piantagioni e che viveva nella città di Coquilhatville..............................

 

 

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Il nostro viaggio per mare verso l’ignoto non incominciò dall’Italia, terra di porti e di navigatori, ma dal Belgio, in quanto ci avevano detto che la via più spedita per arrivare alla colonia del Congo belga era la linea Anversa- Boma: 18 giorni appena di traversata.

Così, caricati sul treno i nostri quasi mille chili di bagaglio, ci ritrovammo ad Anversa, l’antica città di mercanti, dove soggiornammo due giorni, prima di salire la passerella del piroscafo “Anversville", quell’agognato ponte che ci avrebbe sradicati dall’Europa per proiettarci verso la nostra nuova patria: il continente nero.

Era il 15 Luglio dell’anno 1920.

La nave mollò gli ormeggi in un risuonare di colpi di sirena, tra sventolii di fazzoletti, pianti di amanti e parenti che si separavano e grida di commiato, ed uno sbuffante rimorchiatore, basso, tozzo e tarchiato come un bulldog, la trainò pacatamente, con forza inesorabile ma prudente, lungo il fiume Schelda. 

Man mano che ci allontanavamo dalla città, la fertile campagna, verdissima nel suo abito estivo, scorreva lenta davanti ai nostri occhi e le pale dei mulini a vento parevano lunghe braccia che ci davano l’addio.

Il tempo impiegato per trainarci lungo i novanta chilometri di fiume ci parve brevissimo ed infine il  rimorchiatore ci scodellò nel Mare del nord, incredibilmente azzurro e placido, a dispetto della sua fama, e la navigazione vera ebbe inizio.

Il fremito delle macchine si propagò a tutto lo scafo e, a poppa, l’acqua venne frullata ed imbiancata dal vorticoso moto dell’elica che prendeva vita sotto la superficie. A noi che, affacciati al tondeggiante parapetto di poppa, guardavamo lo spettacolo della terraferma che si allontanava, la lunga, bianca e dritta scia tracciata dal piroscafo parve una strada deserta, percorsa per l’ultima volta, una strada che gradatamente scompariva, passati noi, per impedire qualunque ripensamento, qualsiasi tardiva velleità di ritorno.

Per un attimo, un attimo solo, sentii un nodo in gola: lasciavo, in quel momento, irrevocabilmente, dietro di me, tutto ciò che avevo amato un tempo: le tombe di mio padre e mia madre, la mia patria, alcuni amici cari ed un amore lasciato a metà, oltre al ricordo di una mezza dozzina di ragazze, che mi illudevo di avere amato ma che già stava svanendo. Ma il ricordo dei miei genitori e dei miei amici l’avrei portato con me, nel cuore, e mi consolai pensando che la lontananza non cancella gli affetti, ma li rafforza.

I miei fratelli erano altrettanto silenziosi, in quelle prime ore di viaggio, trascorse sul ponte, e credo che pensieri analoghi si agitassero nella loro mente. Poi l’ebbrezza dell’alto mare ci strappò alle malinconie, le onde divennero più alte, anche se il mare non poteva certo dirsi agitato, ed il rollio ed il beccheggio, la brezza gagliarda, resa più impetuosa dal moto della nave, ci fecero sentire veri lupi di mare.

Ridemmo, eccitati, e ci sentimmo ancora una volta ragazzi, mentre qualche sguardo benevolo ed indulgente di viaggiatori più attempati ci seguiva nelle nostre goliardiche pagliacciate.

Ademaro, la mano destra infilata nel panciotto, ed il cappello sulle ventitre, scimmiottava un improbabile ammiraglio Nelson, mentre Ettore, in piedi sul parapetto, a rischio di cadere in mare, si aggrappava all’asta della bandiera, sporgendosi in fuori, la mano destra posta a visiera sugli occhi, vedetta di una nave corsara che avvistava una preda, un galeone carico d’oro, di tesori e di fanciulle. Ed io ridevo come un matto, di un riso liberatorio, che da anni, da quanti anni, non assaporavo più.

La navigazione procedeva tranquilla e facemmo amicizia con alcuni dei passeggeri, giocammo a carte per ingannare il tempo, mentre la prua fendeva le onde, avvicinandoci alla nostra meta.

Facemmo tappa in un porto di cui non ricordo il nome, dove salirono a bordo compassati francesi, diretti alla colonia del Marocco, che non brillavano certo per simpatia, ma anche alcune donne di bell’aspetto, e questo certo non guastava, anche se, alla fine, nessuna passione travolgente sbocciò in quel viaggio per mare.

Giungemmo sulle coste atlantiche del Marocco ed attraccammo a Casablanca, dove potemmo scendere a terra per un giorno intero.

Il porto si presentava moderno ed efficiente ed anche le navi più grandi potevano ormeggiarsi. La città era un animato miscuglio di razze: arabi, uomini nei loro lunghi caffetani e donne velate come la tradizione esigeva, berberi dai profili rapaci e dai nasi aquilini, bianchi di ogni ceto sociale, con una folta rappresentanza femminile, abbigliata con abiti alla moda.

Tra il clamore e gli schiamazzi, bambini correvano e giocavano tra la folla, schivando le gambe degli adulti e spintonandosi, ed animati mercati esponevano merci e cibarie di ogni genere.

Onnipresenti i somari, mezzi di locomozione economici e  parchi nei consumi, adibiti al traino di carretti variopinti, che ricordavano non poco i carrettini siciliani visti nei miei libri di scuola, ma, tra di essi, transitavano anche lussuose automobili, berline aristocratiche ed incuranti del bailamme, guidate da azzimati autisti, con il loro prezioso carico di eleganti signore e ricchi funzionari, banchieri, commercianti.

Sostammo a Piazza di Francia, ombelico della città e ci godemmo quel bagno di folla, gli odori di spezie e caffè ed il primo sentore d’Africa..............................

 

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Il grido si ripeté; era l'urlo angosciato di un uomo torturato, stavolta ne ero certo.

Poi cessò, trasformandosi in un gorgoglio raccapricciante.

Corsi avanti, schivando tronchi e liane, e mi arrestai di botto davanti ad uno schermo di basse palme, dietro cui intravedevo l'acqua del fiume ed il biancheggiare di una piccola spiaggia.

Sulla riva fangosa, un uomo di colore era a terra sul fianco, le mani legate dietro la schiena, la gola tagliata da un orecchio all'altro, mentre, sotto di lui, la fanghiglia e la sabbia si tingevano di scuro.

Altri due uomini, due pigmei, erano inginocchiati poco distante, anche loro con le mani legate dietro il dorso, le loro gole erano serrate, tramite corde, nella morsa crudele di una specie di giogo per buoi, una pertica di legno, recante alle due estremità due specie di Y, tra le cui branche era imprigionato il collo dei due disgraziati.

In piedi, due uomini, anch'essi di colore, ma molto più alti e robusti dei prigionieri, reggevano in mano l'uno un vecchio fucile a cani esterni, l'altro il lungo coltello con cui aveva appena sgozzato il poveraccio, che giaceva ai suoi piedi, tirando gli ultimi spasmodici calci dell'agonia.

Non ci voleva un indovino per capire che la stessa sorte era riservata anche gli altri due poveri diavoli.

A poca distanza da riva, una barcaccia a bordi bassi galleggiava nell'acqua lenta e limacciosa, e a bordo vidi altri uomini, alcuni armati di antiquati fuciloni,  ed alcuni prigionieri, uomini e donne, aggiogati, come i due sulla spiaggia, al pari di bestiame.

Compresi subito di che si trattava.

A più riprese avevo sentito parlare della tratta degli schiavi, ma ritenevo che fossero, più che altro, voci di taverna, senza grande fondamento.

Pensavo che tale vergognoso  traffico fosse ormai stato eradicato,  pur se ancora nel 1886  Tippu-Tib e suo nipote Rashid, i più malfamati mercanti di schiavi dell'Africa centrale, spadroneggiavano sul Congo, fino al punto da  assediare e da impadronirsi di Stanley falls.

Ma ora lì, davanti ai miei occhi, stava la dimostrazione che  le storie che avevo ascoltato erano vere: lo schiavismo imperversava ancora.

Predoni di ceppo Bantu, superiori per forza fisica e aggressività, con conoscenze tecniche superiori ed armi più efficaci, avevano spesso prevaricato, scacciato ed ucciso i timidi e pacifici cacciatori pigmei, quei folletti della foresta che io, nei miei anni di giungla, avevo imparato a rispettare ed amare, ma ora mi rendevo conto che c'era dell'altro. I piccoli uomini venivano a volte catturati come bestie, probabilmente con la complicità di qualche bianco ( chi forniva loro fucili, per quanto antiquati, ed imbarcazioni come quella?) e poi venduti, sicuramente a piantatori o coltivatori privi di scrupoli, di sperdute zone dell'interno, dove i controlli governativi erano lassi  o inesistenti, come economica forza-lavoro.

Le donne, poi, potevano essere vendute anche per altri scopi.

Tutti questi pensieri turbinarono nella mia testa in un istante, facendo divampare in me una furia omicida e, senza neppure rendermene conto, tolsi la sicura alla mia arma e irruppi sulla spiaggia.

Uno dei due, sorpreso ed allarmato, alzò il fucile e lo puntò nella mia direzione, ma non fece in tempo a premere il grilletto, perchè la scarica di pallettoni della mia doppietta lo abbatté sul posto, mentre il secondo si voltava e correva, sguazzando nell'acqua bassa, verso il barcone.

Sull'imbarcazione, due o tre fucili fecero fuoco, e sentii chiaramente le pallottole passarmi vicine, strappando foglie e rami.

Esplosi il secondo colpo contro le figure in piedi sul natante, cercando di mirare alto per non colpire i prigionieri, ma era una distanza eccessiva per la munizione spezzata del mio calibro 12. In quel momento si udirono, in rapida successione, tre colpi di carabina, e tre uomini armati caddero come sassi, fulminati. Evidentemente erano arrivati i rinforzi, prima che mi trovassi in una situazione decisamente pericolosa: Yves aveva dato la parola al suo 404 .

I superstiti, per quanto più numerosi, si affannarono a spingere la barcaccia lontano da riva, con lunghe pertiche, ed in breve sparirono dietro la prima ansa del fiume: con ogni probabilità avevano ritenuto di essere attaccati da un gruppo numeroso, oppure da una pattuglia dell'esercito.

Ci avvicinammo ai due prigionieri che, terrorizzati, ci guardavano con occhi impauriti come quelli di una giovane antilope che veda avvicinarsi un leone. Liberai i due e constatai che per l'altro, purtroppo, non c'era più nulla da fare.

I due uomini erano pigmei Bambuti .

La storia dei pigmei è un'epopea malinconica e silenziosa, senza momenti di gloria ed apparentemente scialba, tuttavia, come dicevo, io avevo imparato ad amare questi elfi del verde, sia per la loro fondamentale bontà, mansuetudine e mancanza totale di malizia, sia per la loro conoscenza della natura...no, non solo conoscenza, mi sono espresso male: loro in realtà sono un tutt'uno con la foresta, che non ha segreti per loro. Nei miei frequenti contatti con loro, mi avevano dimostrato, oltre ad un senso dell'ospitalità squisito, una disponibilità ad essere d'aiuto ed a mettere a disposizione, senza gelosie ne' egoismo, le loro preziose nozioni, che non avevo mai riscontrato nei bianchi "civilizzati"come me.

Il loro nome, pigmei, significa alti un cubito, e pare che già gli antichi Egizi li conoscessero e li chiamassero " I danzatori" per le loro danze vivaci ed espressive.

I contatti con le popolazioni Bantu, più avanzate, in quanto conoscevano ed usavano i metalli, furono improntati a cordialità e disponibilità a commerciare, scambiando avorio e pelli di animali con altre merci, e specialmente con utensili metallici, preziosi per loro, ma i Bantu, spesso, come potei constatare, e non solo loro, anche i bianchi, ricambiarono con soprusi e violenza, spingendo i piccoli uomini, sempre più all'interno, nel cuore della foresta.

Io non credo che i Pigmei siano di razza nera: in realtà la loro pelle è più chiara,  quasi color cannella, ed anche i tratti somatici si discostano da quelli di altri popoli dell'Africa che incontrai.

Si, forse sono veramente un popolo diverso, a se stante.

Mi accovacciai sui talloni accanto ai due, cercando di tranquillizzarli ....................

 

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Durante alcune delle mie spedizioni mi ero spinto nelle zone di foresta paludosa a Nord del Congo, sia sulla riva sinistra che destra dell'Oubangi, nella Cuvette congolese, e quindi anche in territorio francese, già che lo scopo “scientifico” di tali spedizioni mi aveva aperto anche questa porta.

Ebbene, spesse volte, parlando con gli sparsi gruppi di pigmei Baka, distanti tra loro decine e a volte centinaia di chilometri, e che quindi non avevano mai contatti tra loro, avevo ascoltato strane storie riguardanti una specie sconosciuta, un essere che loro chiamavano Mokele mbembe, “colui che devia il corso dei fiumi”.

Tutti, indistintamente, me l'avevano descritto come un animale enorme, dal corpo tondeggiante e grosso come quello del più grande elefante, un collo serpentino, sormontato da una testa che pareva piccola rispetto al resto, ed una lunga coda, che viveva solitamente immerso nelle paludi, nutrendosi di ippopotami, coccodrilli ed esseri umani, ma che poteva camminare sulla terraferma, lasciando enormi tracce a tre dita.

Quando chiedevo ad un Baka di disegnarlo, con uno stecco sulla fanghiglia o sulla sabbia, tutti, invariabilmente, mi disegnavano lo stesso animale, e quindi mi ero convinto che tale creatura doveva esistere realmente.

Divorato com'ero dall'ansia di scoprire qualche animale sconosciuto di grandi dimensioni, qualcosa che facesse di me un esploratore e zoologo famoso, avevo svolto delle ricerche, alla biblioteca, ed ero giunto alle mie conclusioni. Sapevo della scoperta delle ossa di giganteschi rettili preistorici, che erano stati chiamati, genericamente, dinosauri, che in greco antico, significa semplicemente: lucertole terribili.

Nel 1877 era stato dissotterrato e ricostruito il primo scheletro di brontosauro, la lucertola del tuono: un rettile che assomigliava come una goccia d'acqua a quello disegnato e descritto dai pigmei.

Ma non era tutto.

Avvistamenti di tale rettile erano stati riportati da diversi esploratori ( e questo avrebbe anche potuto lasciarmi freddino, dato che a volte chi esplora può essere portato ad enfatizzare ciò che ha veduto) ma anche missionari francesi lo avevano visto e descritto, e non penso che loro avrebbero avuto motivo di esagerare le cose e fare di una lucertola o di un varano un mostro preistorico.

Quando mostrai, in seguito, la riproduzione a colori di un brontosauro ad alcuni Baka, che sostenevano di aver veduto il deviatore dei fiumi, questi, eccitati ed impauriti, confermarono vigorosamente che si trattava proprio di lui, di Mokele mbembe.

E tanto mi era bastato: la decisione di andare a cercare il mostro delle paludi si era radicata in me e da tempo andavo facendo progetti in merito.

Avevo anche avuto assicurazione, da un pezzo grosso dell'amministrazione coloniale, un Bwana ya l'Etat, come venivano chiamati dai nativi Bantu, che, se avessi catturato, ucciso o fotografato il dinosauro, dimostrando al mondo che esistevano ancora esseri antidiluviani, vivi e vegeti, avrei avuto fama e denaro e tutto l'appoggio possibile.

Mi era stato garantito il libero accesso alla parte della Cuvette e delle paludi di Likouala fuori dalla giurisdizione belga ( e se anche non l'avessi avuto, chi al mondo avrebbe mai saputo che io ero andato là?) ma mi si disse anche, con cortesi e squisiti giri di parole, che non avrei avuto un soldino per finanziare la mia avventura......non era una cosa ufficiale e dovevo comprendere che l'amministrazione coloniale non poteva certo coprirsi di ridicolo in caso di insuccesso....

In occasione di un incontro con Ademaro ed Ettore, incontro nel quale, come altre volte era successo, i miei fratelli si lagnarono del loro lavoro, senza riconoscimenti e con un ritorno economico modesto, della loro condizione sociale così scaduta rispetto alle loro aspettative ed al loro rango, finii per parlar loro del mio progetto, della mia certezza che Mokele mbembe esistesse davvero e dei vantaggi, anche economici, che ne sarebbero potuti derivare.

Da un lato, devo confessare, ero stanco  ed irritato per le loro continue lamentele (in fin dei conti-pensavo- io, che avevo perduto tutto il patrimonio, esattamente come loro e senza essere stato in nessun modo responsabile del tracollo, non mi ero mai lamentato, ne' mai avevo rinfacciato loro alcunché), dall'altro ero sinceramente dispiaciuto nel vederli così avviliti e privi di un incentivo, di uno scopo, di un obiettivo o di una passione.

 Riuscivo a capire che per me era diverso: io ero venuto in Africa perchè attratto dall'avventura, dagli animali, dall'Africa stessa, ma loro ci erano venuti per rompere col passato, questo si, ma anche per trovarvi una sistemazione soddisfacente, una vita agiata, da possidenti, benestanti e tenuti in considerazione, e doveva essere stato, per loro, un colpo ben più duro che per me.

All'inizio si mostrarono piuttosto scettici e poco interessati al mio progetto, inoltre la foresta non aveva per loro alcuna attrattiva, anzi, avevano odiato i periodi di soggiorno forzato nella residenza costruita nella zona del caucciù, preferendo di gran lunga la vita mondana a Coquilhatville, ma poi riuscii a far breccia nelle loro difese, facendo leva soprattutto sulla possibilità di guadagno e di notorietà che ci avrebbe procurato una scoperta come quella di un dinosauro nelle foreste del Congo. 

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........Appena a  Sud di un villaggio chiamato Bururu, ma sulla riva destra

dell'Oubangi, le paludi, onnipresenti in quella zona, lasciano spazio ad un'enorme foresta relativamente asciutta, che circonda, inglobandole, due grandi paludi, l'una, più a Nord, tondeggiante e del diametro di una trentina di chilometri, l'altra, più a Sud, ancora più ampia, lunga circa 100 Km.

Quello era uno dei posti più incredibili da elefanti che avessi mai veduto.

 Era un ombroso regno di alti tronchi e liane, un infinito salone di volte verdi e colonne lignee, regno condiviso dai pachidermi e dai pigmei, dove avevo trascorso giorni indimenticabili, dove la luce del sole arrivava solo sotto forma di lame di luce e pulviscolo danzante, dove il berciare delle scimmie ed i versi di mille uccelli risuonavano in continuazione, senza consentire un attimo di silenzio.

E dove il terreno era solido sotto i piedi.

Ma più ad Est, al di là di un fiume senza nome, sapevo, mi avevano detto, che si estendeva una foresta che copriva un mare di paludi senza fondo, sabbie mobili e canali melmosi, nascosti da tappeti vegetali infidi ed ingannevoli, luoghi di pericolo mortale, in cui solo i pigmei, a volte si avventuravano, conoscendo quelle uniche, strette ed invisibili strisce di terra più solida che intersecavano gli acquitrini.

Ed al centro di quell'inferno di acqua, piante e melma, si narrava di un lago, tondo come un uovo, che i Baka dicevano essere l'orma di Dio.

I pigmei sono diversi dagli altri popoli dell'Africa anche nelle credenze religiose. Avevo scoperto che loro non credono in mille dei e spiriti diversi, ma in una sorta di "Buon dio", un'entità che vive non in cielo e neppure in qualche altro luogo remoto e mitico, ma in mezzo a loro, nella foresta, nei suoi alberi ed animali.

E quel lago, quel mitico lago ne era l'impronta, ed era l'ombelico della zona dove, invariabilmente, Mokele mbembe era stato avvistato, anzi, alcuni pigmei sostenevano di aver visto uno di quei rettili proprio  immerso nelle acque del lago, dove, a quanto dicevano, si vedevano pochissimi ippopotami.

Non potevo sapere quanti chilometri o centinaia di chilometri di acquitrini c'erano tra il corso dell'Oubangi ed il lago, ma pensavo che questo doveva trovarsi ben prima del corso del Sangha, che distava un 150 o 200 chilometri dall'Oubangi stesso. Se io avessi potuto trovare il misterioso fiume di cui parlavano i Baka, ero quasi certo che mi avrebbe portato, risalendolo, abbastanza vicino a quello specchio d'acqua. Forse, anzi, il fiume stesso nasceva dal lago.

Il Congo scorre verso Sud Ovest, mentre quasi tutti i suoi affluenti di destra scendono dritti verso Sud, per cui, ragionando sulla mappa, ero giunto alla conclusione che il fiume sconosciuto, che avevo battezzato Mokele (ero ormai ossessionato da quel magico nome), doveva probabilmente gettarsi nel Sangha, e quasi sicuramente nel suo basso corso, appena prima della sua confluenza nel Congo, perchè è solo nel suo ultimo tratto che esso piega verso Sud Ovest, prima di perdersi nel grande padre di tutte le acque.

Il mio progetto era quindi di risalire il Sangha e di esplorare i suoi affluenti di sinistra, fino a trovare il fiume Mokele (8) e poi seguirlo fin dove possibile.

In seguito avremmo potuto usare le piroghe o procedere a piedi, con i portatori: il lago doveva essere circa alla stessa latitudine di Bururu.

Il battello si comportava onorevolmente, a dispetto dell'età, e giungemmo al punto dove un ramo del Congo deviava deciso verso Est. ..........................

 

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