Era uno strano periodo quello che stavamo trascorrendo in Africa. Strano ma, a suo modo, molto stimolante, anzi, addirittura eccitante, perché poteva essere la vigilia del momento in cui avrei potuto possedere un pezzettino di quell’Africa che mi si era insinuata nel sangue come un piacevole parassita. Già, il mal d’Africa è una sindrome da cui non si guarisce, un virus tenace, ma di cui non avrei mai voluto liberarmi, un microorganismo invisibile ma sempre attivo, che poteva rimanere …dormiente per qualche tempo, come un ipnozoita della malaria, salvo poi risvegliarsi in qualunque momento, regalandomi, però, dei brividi assolutamente più piacevoli: in pratica, gli unici momenti in cui il mal d’Africa non mi poteva assalire era quando mi trovavo in Africa, una sorta di assuefazione che causa delle vere crisi da astinenza. Eravamo ospiti nella farm di un amico, ex pilota di formula uno sudafricano, una persona eccezionale, che recava le cicatrici dell’incendio del piccolo monomotore in cui era tragicamente morto il figlio durante uno sfortunato atterraggio sulla pista della stessa farm. Il luogo era molto bello, in mezzo ad una natura selvaggia e primordiale, ma il mio amico Sandy ed io restavamo nel bush a…correr dietro ai leopardi solo di notte, perché le giornate erano dedicate ad infiniti vagabondaggi, cui prendevano parte anche Claudia e Carlotta, allora un frugoletto alto un soldo di cacio, ma che già si era ambientata in maniera talmente naturale ed entusiastica che un giorno Sandy, vedendola giocare con un serpente d’acqua che aveva adottato come cucciolo, aveva esclamato, un po’ sconcertato: ”More african than a mangoose!”  (Per amor di precisione, la foto sotto ritrae mia figlia alcuni anni dopo il periodo di cui parlo, ma la specie di serpente é la stessa)

Per molti anni avevo girato nel resto dell’Africa, dove avevo diversi amici, snobbando, a torto, il Sudafrica, che erroneamente consideravo un paese troppo antropizzato per i miei gusti, per cui me ne ero fatto un’idea preconcetta, ma poi avevo scoperto che quella grande e polimorfa nazione vantava zone splendide e selvagge, di una bellezza mozzafiato e che, oltre agli altri big four, ospitava leopardi spesso di dimensioni incredibili, soprattutto nelle zone più remote e montuose e così ero stato contagiato irrimediabilmente, anche perché mister Ingwe ed il bufalo sono sempre stati i miei animali preferiti. Quando avevo confidato a Sandy che il mio sogno era trovare un pezzetto d’Africa da acquistare, lui aveva aderito prontamente all’idea, affermando che quello era il momento ideale per farlo, e così, ora, eravamo alla ricerca del “posto giusto”. Solo che eravamo parecchio esigenti in proposito, ed il nostro concetto di posto giusto stava agli antipodi di quello che la maggior parte della gente sensata aveva: in altre parole, noi volevamo un posto sperduto nel bush più selvaggio,  lontano dalla civiltà e possibilmente pieno di leopardi, animali che la maggior parte dei farmers vedeva come il fumo negli occhi, sia perché hanno la brutta abitudine di sbafarsi il bestiame, sia perché, nel caso dei game ranches, lo sbafamento comprende anche pregiate specie di antilopi, come sable e nyala, un vizietto decisamente antieconomico. In quella zona del paese, lontana dal turismo e decisamente tribale e…ruspante, generalmente le farm erano situate in zone accessibili, in vicinanza di strade, magari sterrate, ma pur sempre agibili tutto l’anno, per cui era inevitabile che ci capitasse spesso di andare a vedere aree o edifici che poi non facevano per noi, ma Carlotta si divertiva un sacco perché in vendita si trovavano farm che sembravano uscite da una fiaba. Si era all’antevigilia dell’epocale passaggio dal governo bianco a quello che sarebbe stato di Mandela e, per comprendere la situazione, occorre fare una piccola divagazione. La mia impressione era quella che in Sudafrica coesistessero due…tribù bianche, quella degli Afrikaners, discendenti di quei Boeri che avevano colonizzato la punta meridionale del continente secoli addietro, e quella degli anglofoni. La mentalità mi appariva parecchio differente, in molti casi: più dediti al business e più aperti ai cambiamenti gli anglofili, più tradizionalisti e legati alla terra, come coltivatori o allevatori, i discendenti dei Boeri, che vedevano, nei mutamenti che si profilavano all’orizzonte, un biblico Apocalisse, con un pessimismo di dimensioni quasi cosmiche. Qualcuno mi aveva già confidato di temere situazioni tragiche, quali si erano verificate in altri paesi africani, e molti parlavano di andarsene, di emigrare e di vendere tutto, per cui di terre in vendita, anzi, in svendita, ve n’erano in abbondanza. Noi eravamo più ottimisti sul futuro, dal momento che, tutto sommato, nel paese si percepiva la presenza di una numerosa middle class di colore, oltre alla presenza di interessi ed investimenti internazionali e poi, tanto per dirla tutta, tra noi si diceva: l’Africa, la vita stessa del bush comportano sempre un pizzico di rischio, se no che gusto ci sarebbe? E così eravamo più che mai decisi. Per di più, quella serpeggiante inquietudine ci favoriva un sacco: non solo la vita costava una minuscola frazione di quanto costasse qui da noi (ed ancora oggi, se è per quello), ma i prezzi delle farm o dei terreni non adibiti a coltivazioni o allevamento erano talmente esigui che, all’inizio, mi facevo ripetere più volte la cifra, incredulo. Inoltre, quella remota parte del paese, lontanissima da Johannesburg e Pretoria, non era mai interessata a nessuno: i sudafricani di Johannesburg o Pretoria che amavano la wilderness, si erano, se mai, comprati la farm nei Waterberg, zona più facilmente raggiungibile in un weekend e malaria-free, ed il Venda era, per molti, lontano ed inospitale quanto la luna, per cui il valore delle terre era irrisorio anche per lo standard di una nazione dove i costi erano, per noi, già bassissimi. Il problema, se mai, era che, nonostante la smisurata rete di conoscenze di Sandy (le mie, allora, erano ancora abbastanza limitate, in Sudafrica), la maggior parte dei lotti in vendita si trovavano nel posto sbagliato. 

Visitammo una serie di posti che facevano scendere un filo di bavetta dalle labbra di Carlotta: farm (intendo le costruzioni) immense, eleganti tetti thatched, graziosamente arcuati sulle finestre, ombrosi boschetti di eucalipti e fichi selvatici, macchie colorate di bouganvillee, piccole piantagioni di avocados…..c’era un bel contorno, ma mancava il piatto forte. Alcune farm erano bellissime, ma il terreno era di dimensioni modeste, in parte magari coltivato, una strada o l'abitato di Makhado erano troppo vicine, per i nostri gusti, insomma mancava la vera wilderness, la suspence. In compenso, quel viaggio tra le proprietà più disparate, era, culturalmente parlando, interessante. In particolare ricordo due farm, che tuttavia non avevano un terreno che rispondesse alle nostre esigenze. La prima era la casa di Barbie, né più né meno, solo talmente ipertrofizzata che Barbie avrebbe avuto bisogno del GPS (di cui allora manco si parlava) per orientarcisi: rosa e bianca come un confetto, pretenziose colonne bianche dappertutto, aveva una…sala pranzo con camino che sarà stata 200 metri quadri, una caterva di stanze e, all’esterno, una cittadina di voliere contenenti una collezione di pappagalli il cui ciacolare avrebbe rincretinito un sordo. Era un tantino kitsch, a dire il vero, un tantino tanto, ma immaginate ad una bimbetta cosa poteva sembrare: grossomodo la reggia della regina Grimilde. La seconda era un dedalo di stanze, sale, cucine, lavanderie, ripostigli e bagni, uno dei quali ospitava una vasca da bagno che sembrava la piscina di Messalina, il tutto per un’estensione pari ad un isolato e con una disposizione dei locali talmente anarchica da ricordare uno di quei rampicanti che, nati da un seme, si diramano in modo caotico e vorace ad invadere i dintorni, ma entrambe erano in una zona troppo…civile, se così si può definire una zona dove il più vicino emporio stava a trenta chilometri di distanza. Beh, come dicevo, la cosa che lasciava di stucco erano le cifre richieste, con cui, in Italia, non avremmo acquistato un box auto in città. Con gran dispiacere di Carlotta, accantonammo i due castelli delle fate e, incaponiti più che mai, cambiammo completamente tattica: se la montagna non va al profeta, sarà lui ad andare alla montagna, e così facemmo noialtri. Iniziammo ad addentrarci con il fuoristrada sulle più disastrate e remote piste, cercando il posto giusto. In realtà, in quella zona i posti adatti non mancavano, perché si trattava di un’area selvaggia per davvero, quel che mancava erano posti giusti con una farm in mezzo. A dirla tutta, il problema grosso non stava neanche lì, perché costruirsi una casa, là, sarebbe costato poco o niente (avevamo anche un carissimo amico costruttore, Sean): il problema vero era scoprire a chi apparteneva la terra, che poteva essere dello stato, di un privato morto un secolo addietro o del diavolo in persona. Beh, per farla breve, un giorno transitammo là dove si trova attualmente Ingwe. All’incrocio di due valli vedemmo la vecchia farm, un tempo stazione della diligenza che attraversava le montagne del sale e scendeva verso il Limpopo e la Rhodesia del sud: il posto era un incanto, ma quello che segnò il destino furono le tracce che vedemmo sulla pista quando fummo proprio davanti alla farm. Bloccammo il Toyota e scendemmo. Davanti a noi, a trenta metri dalle costruzioni, le tracce di un enorme leopardo, cui mancava un dito, procedevano sulla sabbia della pista verso le montagne. Sandy ed io ci guardammo e, all’unisono, esclamammo: “This is the place”.

E così nacque Ingwe.

 

scugnizza africana
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